Jimmy è l’unica persona che non ho mai scordato, una specie di isola chiara in un mare confuso e privo di bordi. Mi accorgo che ancora ci sono momenti della mia esistenza che vivo come se lui dovesse tornare. A volte, specie nei tardi pomeriggi di poca luce, apparecchio la tavola e aspetto mio marito alla finestra. Poi mi accorgo con un sussulto che non sto aspettando Virgil. È Jimmy che mi attendo di veder spuntare da dietro la siepe. E allora sento un calore aggressivo che si spande tra le mie cosce e mi vengono lacrime di rabbia. Odio non dominare i pensieri, l’inconscio malefico che si insinua come un serpente nella vita che ho costruito, nelle stanze prive di acari e macchie dove abito adesso.
Virgil mi ha salvata, ha puntato su di me molto più di quanto sia umano chiedere a qualcuno. Virgil mi ha salvata. Della mia storia di redenzione ho ricordi spezzati, per lo più ricostruiti attraverso quanto lui mi ha raccontato. Immagini poche: le mie mani paurosamente magre segnate da tante piccole ferite, il reticolo delle vene che risale sulle mie gambe, il sorriso ebete rimandato da una vetrina. E materassi chiazzati d’urina, macchie bianche su pareti scalcinate, il cranio rasato senza cura di uomini nodosi come tronchi, i loro organi duri coperti di vene viola e piantati come torri sulla magra miseria dei corpi. L’odore giallo della strada, ficcato su nelle narici, come un tampone, a bloccare ogni altra molecola, a rendere atroce ogni singolo respiro.
Anche della mia vita, prima del grande vuoto, mi tornano solo brani scomposti, specie quando dormo o se bevo un bicchiere di vino. Nella testa mi sono fatta un deposito a parte dove infilo questi ricordi e li lascio macerare sperando che qualche lembo combaci. Non ho ottenuto granché, la cosa che c’è di sicuro è l’odio smisurato verso un uomo cui non riesco a dare un volto, immotivato perché non ne so la ragione. E poi c’è il vuoto quasi fisico che indovino dentro il mio ventre, una stanza raggelata da spifferi rossi. Lo so, ancora la testa mi gioca scherzi brutti, ancora, sempre più raramente, cado sulla sedia con gli occhi di un’altra e, quando torno, non so dove sono stata.
Ma la cosa peggiore fra tutte è stata vedere la cicatrice sul ventre, poco sopra i peli del pube, quando avevo ormai riacquistato la capacità di farmi domande. Virgil mi ha portata da un medico che gli doveva un favore.
– Non c’è dubbio – ha detto quello – è la cicatrice di un taglio cesareo –
Così ho saputo di avere partorito un figlio e sono stata certa di non ricordarlo.
Nessuno che sappia il mio cognome; il nome, quello sì. Era inciso all’interno di un anello. Mi chiamo Sandra.
Virgil ha un’impresa edile, non lo diresti mai a guardarlo, con il suo metroesettanta asciutto e privo di muscoli, le mani piccole e delicate, gli occhi neri come i capelli, tenebrosi quanto basta a farti desiderare di saperne di più. Ha la voce sottile, appena un po’ roca, adatta a cantare, magari, ma non a urlare ordini sulle impalcature.
Virgil mi ha trovata in un edificio pericolante che era venuto a ispezionare. Doveva trattare con il proprietario per farci sei monolocali da affittare agli studenti. Mi ha raccontato che stavo nel bagno, dentro la vasca, sopra un mucchio di vestiti sporchi. Magrissima, la pancia gonfia, guardavo il soffitto e non dicevo una parola. A un certo punto gli ho sorriso. Uno stiramento automatico delle labbra, una specie di riflesso animale, mi ha detto V., ma quello che lo ha colpito sono stati i denti; vista la mia condizione pensava me ne restassero pochi, invece c’erano tutti e mandavano piccoli, candidi, bagliori. V. ha chiamato i soccorsi. Mi hanno portata in una specie di ospedale poco più pulito dell’edificio dove mi aveva trovato. Veniva a visitarmi ogni due o tre giorni. Io me ne stavo immobile senza parlare, solo negli occhi la vita tornava, molto lentamente. Nessuno sapeva qualcosa di me, così per le pratiche burocratiche chiesero a Virgil. Con pazienza, a furia di flebo e frullati riuscirono a sgonfiarmi il ventre e a rimettermi in piedi; con il movimento si riaffacciò la mia natura umana. Virgil mi disse che piansi per una settimana, ma che non erano lacrime disperate, sembrava una pioggia vecchia che finalmente avesse trovata l’uscita. La prima parola che pronunciai fu per Virgil e dovette costarmi tanto.
– Grazie – sussurrai; e caddi svenuta.
Ritrovare le parole fu un percorso lento, ma da subito capii di poterci riuscire. Quello che mancava era tutto l’intorno, gli appigli ai quali appendere un pensiero, i confronti da poter fare. Una qualunque stupida frase, tipo “anch’io una volta sono stata al cinema”, non potevo dirla con sicurezza, tutto il mio passato era vago, impreciso. A volte mi sembrava di sapere, altre brancolavo nel buio. Virgil non lasciò che mi abbattessi, mi rimase sempre al fianco, sempre un incoraggiamento, una risata gentile. Però una cosa che ricordavo relativamente bene c’era, ed era Jimmy. In quei giorni riuscivo a vedere nitidamente il suo aspetto, rammentavo il suo carattere schivo, ma Jimmy era come un personaggio dei fumetti, perfettamente ritagliato nei contorni e appiccicato sopra un foglio grigio. C’eravamo noi due che facevamo l’amore, ma la stanza dov’era? E Jimmy da dove era venuto, io dove sarei andata, una volta che mi fossi alzata dal letto?
A Virgil non ho mai raccontato di Jimmy, né lui ha mai chiesto qualcosa. Virgil è uno che preferisce ascoltare, uno che dà, più che prendere. Uno da amare davvero, se solo il cuore agisse a comando.
L’ho amato Virgil? Davvero non lo so, tanta è stata e sempre sarà la gratitudine nei suoi confronti che faccio fatica a capirci.
Quando uscii da quella specie di ospedale ero in grado di parlare senza difficoltà, il vocabolario che possedevo era tornato alla luce. Anche fisicamente stavo bene, avevo ripreso una decina di chili e la pelle aveva cambiato colore. Il bruno-giallastro se n’era andato e la carnagione era tornata chiara. Gli occhi di nuovo emergevano dalla fossa degli zigomi e parevano vivi. Virgil mi aveva trovato procurato un monolocale arredato vicino a casa sua. Per sei mesi mi avrebbe data una mano, nell’attesa di trovarmi un lavoro.
La prima sera Virgil cucinò a casa mia. Dopo cena lui lavava i piatti e io stavo seduta vicino alla finestra, guardavo un lampione che si accendeva e spegneva di continuo.
– Virgil, perché mi aiuti così tanto? – gli chiesi senza guardarlo. Virgil rispose soltanto con un sospiro o forse disse qualcosa a bassa voce e il rumore dell’acqua se lo portò.
Per una specie di tacito accordo non parlavamo della mia vita precedente, solo io, in teoria, potevo accennarvi, anche se in realtà c’era poco da dire. Domande molte, quelle sì, ma per lungo tempo le evitammo con cura. Naturalmente tutte le cose non fatte, non dette o evitate altro non fanno che raccogliersi sulla nostra schiena, peso trasparente alla vista, ma non alle ossa dell’anima. Un giorno o l’altro vengono alla superficie, all’improvviso, come un grave liberato dal cavo che lo tratteneva sul fondo del fiume.
Dopo sei mesi stavo molto meglio; nella nuova vita avevo un sacco da fare, così tanto da imparare e niente tempo per le domande inevase. La velocità delle cose mi trascinava con sé nella corrente tenendomi a galla senza difficoltà apparenti. Tra me e Virgil non era successo niente, lui tutte le sere veniva a casa mia e mi ascoltava parlare. Capivo che mi desiderava, lo vedevo dagli sguardi che cercava inutilmente di nascondere, dal calore della mano che mi sfiorava, persino dal tono della sua voce che in certi momenti si faceva roca e caldissima. Però non si sbilanciava, mai un accenno a noi due. La cosa mi lasciava perplessa, non ero sicura che mi provocasse dolore e questo mi dava da pensare. Mi dicevo che per me tutto era nuovo, che ero come una bambina e non riuscivo a capire. Ma in realtà sapevo che non era vero, gli aspetti generali della vita mi erano chiarissimi, perché tutta la mia vita precedente ne aveva determinato la comprensione, soltanto non riuscivo ad agganciarli a un luogo, a un tempo, a delle persone . Possedevo il tutto, ma non gli ingredienti, sapevo cos’era l’amore, ma non il percorso attraverso il quale lo avevo incontrato.
Poi una sera accadde quel che doveva. Il caldo era opprimente da giorni e stavamo seduti sulla veranda di Virgil. Era molto tardi e ancora il vento della valle non si faceva sentire. Guardavamo il cielo nero. Mi accorsi che il respiro di Virgil si era fatto strano, quasi trattenuto. Teneva gli occhi chiusi e le labbra serrate. Gli andai vicino e gli carezzai i capelli.
Immobile.
– Cosa c’è Virgil, cos’hai? –
Le sue palpebre tremavano leggermente, come combattute fra l’aprirsi o il restare serrate.
– Virgil – chiamai di nuovo – ti senti male?-
Scosse la testa.
– E allora cos’hai, non riesci a rispondere ? –
Fece un lento cenno di conferma col capo. Allora parlai io, poggiandogli le labbra sulle sue. Con estrema lentezza gli sbottonai i pantaloni e gli afferrai il pene. Bruciava come un tizzone. Mi tornarono alla mente scene della mia vita in strada, ma nei miei gesti adesso sentivo una verginità nuova. Dagli occhi di Virgil scesero alcune lacrime salate.
Facevamo l’amore tutte le domeniche mattina, appena svegliati. Avevamo riempito la nostra vita di tante piccole consuetudini e appuntamenti, che con il tempo non divennero mai noiosi, ripetitivi. Anzi, le piccole abitudini ci confortavano, supportavano la nostra convivenza leggera, nata sull’orlo del mio baratro scuro e impegnata a cercare di allontanarsi da quel precipizio, per poter sopravvivere. Le pratiche burocratiche, che Virgil aveva seguito con pazienza, erano arrivate alla fine e avevo ricevuto i miei nuovi documenti. La fotografia, un nome, luogo e data di nascita sconosciuti, un numero di assistenza sociale: quelle le fondamenta ufficiali della mia nuova esistenza. Adesso abitavamo assieme nella casa di Virgil, una villetta con il giardino su tre lati, il quarto dava su un campo di basket sempre deserto.
A quel tempo la crisi economica mordeva sul serio e il mercato immobiliare stava crollando. Virgil non aveva più lavori da fare, ma grazie alla sua precedente oculatezza tiravamo avanti senza troppa difficoltà. Il tempo da passare insieme era tanto, ma non ci pesava. Non parlavamo molto, bastava uno sguardo ogni tanto a confermarci che l’altro era lì, se ci fosse stato bisogno. Frequentavamo una coppia più avanti negli anni. Lui aveva lavorato con Virgil, ma adesso si occupava di altro, aveva una piccola ditta contabile e la moglie era la sua socia. Nico era più alto e più largo di Virgil, teneva spesso le mani sopra la pancia sporgente. Coi capelli lunghi buttati all’indietro e le folte basette che gli arrivavano quasi al mento, pareva un marinaio in disarmo. La moglie, Carla, era proprio un bel tipo. A un primo sguardo poteva sembrare una cinquantenne senza pretese, ma si capiva che c’era di più. I vestiti, apparentemente casuali, in realtà mettevano sempre in risalto un corpo tirato a lucido e invitante. Aveva muscoli lunghi che s’infilavano sotto la gonna. Sì, invitante era la parola giusta, vedevo la conferma negli occhi di Virgil, non che lui ne fosse conscio, ma io la vedevo. Facevamo grandi mangiate; Nico e Virgil amavano cucinare, io e Carla aspettavamo in veranda con in mano grandi bicchieri di cocktail che lei non smetteva di prepararci.
– Guardali quei due – diceva indicando gli uomini – si divertono come bambini. E a noi ci lasciano sole, ad annegare nell’alcool – poi le veniva da ridere e io la seguivo.
Le risate prive di ragione sono le più belle, anche se, viste dall’esterno rendono tristi le stanze.
Finito di mangiare si giocava a carte, a coppie mischiate. Si vedeva che gli uomini non avevano voglia, le partite andavano avanti tra finti litigi e accuse di lentezza reciproche. Nico era sempre il primo a crollare, all’improvviso la testa gli cadeva di lato, come se il collo si fosse spezzato. Tutti ridacchiavano, in verità più stanchi di lui e quello era il segnale. La fine del giorno.